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Alla Berlinale attacco al capitalismo di Winterbottom e Naomi Kleindi Lorenzo Buccella Se qualcuno sospettava fin qui una latitanza di sguardi capaci di rovistare sotto il tappeto dei temi più hard della contemporaneità, be’, la spallata politica che la Berlinale ha piazzato a metà del suo percorso non ha di certo trovato una porta vuota ad attenderla. Anzi, più si è alzato il mirino dello scontro più il muro dell’attualità ha offerto zone d’innesco accomunate dalla medesima volontà di urto. A partire già dal mattino, nella sezione Panorama, con l’antipasto solfonicamente anti-liberista confezionato da Michael Winterbottom, qui tornato ancora una volta nelle vesti di documentarista assieme a Mat Whitecross, che con il suo “The Shock doctrine” ha voluto rivestire in immagine l’omonimo saggio della scrittrice no-logo Naomi Klein.Una sorta di pamphlet a tesi allargata che, dipanandosi lungo il cordone ombelicale di una serie di conferenze tenute dalla saggista in varie parti d’America, lancia cazzotti visivi contro tutto il dispositivo ultra-ideologico ideato dall’economista Friedman, qui visto come seme d’origine di una lunga serie di nefandezze mondiali, non da ultima la crisi economica di questi mesi. Non a caso, per tallonare l’attualità più recente , il documentario arriva a Berlino ancora fresco di colla, senza i titoli, proprio a testimoniare la condizione ancora in fieri del progetto complessivo. Così, attraverso il riuso a singhiozzo un po’ spettacolarizzante di materiali d’archivio e interviste, si passa lungo un’altalena temporale che ondeggia tra il Cile di Pinochet, la Russia di Eltsin, l’Inghilterra della Thatcher, il massacro di piazza Tienanmen e le invasioni guerresche in Afganistan e Iraq.Tutti frutti malsani, secondo la Klein, della medesima inseminazione ultra-liberista, qui ovviamente un po’ forzata a livello esplicativo nei tendini associativi (alla Michael Moore, per intenderci) per cercare di mantenere compatto il bersaglio. Bersaglio che tuttavia viene centrato con più forza, se dal documentario passiamo alla finzione, dove oggi in concorso è passato l’americano “The messenger”, debutto alla regia di Oren Moverman, già sceneggiatore di film per registi importanti come Todd Haynes. E basta solo buttar lì il bozzolo della vicenda per capire la prospettiva obliqua con cui si può parlare dell’ultimo conflitto in Iraq, scandagliando gli strascichi traumatici lasciati ai superstiti. Rimpatriato dal fronte militare ferito agli occhi e a una gamba, il soldato Will (Ben Foster) si trova costretto a passare gli ultimi suoi tre mesi di leva con l’ingrato incarico di portare le notizie di decesso ai parenti dei caduti in guerra.Un ruolo che assolve in tandem alla meticolosità protocollare del più anziano ufficiale Stone (Woody Harrelson), concentrato perché nessuna regola d’oro venga trasgredita: essere tempestivi per dare l’informazione prima della televisione o di internet, non sbagliare il nome del defunto e star lontani da qualsiasi abbraccio consolatorio. Tra reazioni violente, sputi, pianti, sberle e rassegnazioni, il duetto formale dei due soldati in uniforme, fortificato da due ottime interpretazioni attoriali, si scoglie in un tracciato esistenziale capace di assorbire in distanza i rimbombi psicologici causati dalla guerra, senza tuttavia lasciarli precipitare a corpo nel dirupo di una dramma senza speranza. È infatti il tocco ironico che qua e là pizzica il racconto assieme al lento montare di un’affettività solidale tra solitudini mutilate dal conflitto a far da antidoto perché un altro giorno possa ripartire.

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