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Prodi: l'annuncio di Veltroni fece cadere il mio governodi Simone Collini Figurarsi se ha rinnovato la tessera del Pd ora perché si è dimesso Walter Veltroni, però... Romano Prodi sorride sornione a Fabio Fazio, che gli fa notare la curiosa coincidenza tra l’elezione di Dario Franceschini a segretario e, pochi giorni dopo, la sua decisione: «Semplicemente, ancora non era arrivata la tessera stampata. Appena mi hanno telefonato per dirmi che era pronta ho risposto: vengo a prenderla». Sorride sornione e si sorprende della sorpresa per il suo gesto: «Forse qualcuno pensava che non volessi rinnovare l’iscrizione, forse qualcuno pensava che serbassi rancore». Niente di tutto questo, figurarsi. Però quando smette di sorridere e si fa serio, le parole che pronuncia nel corso della puntata di “Che tempo che fa” sono tutt’altro che tenere nei confronti dell’ex segretario del Pd. Perché se Prodi si è dimesso da presidente del partito, se ha preso le distanze dal soggetto politico che ha contribuito a far nascere è perché non ne condivideva più le scelte di fondo. Lo dice con estrema tranquillità, senza troppi giri di parole: «La linea politica che è stata adottata non era la mia, mi sono fatto da parte». La decisione di Veltroni di non lavorare in campagna elettorale a una politica delle alleanze? «Ho sempre sostenuto che non si doveva andare da soli. Che questo partito doveva essere invece il nucleo fondante della coalizione. Portare nella cultura di governo anche le ali estreme, questa è la democrazia». Fino a una frase che sa tanto di un atto d’accusa nei confronti di Veltroni, quando rispondendo alla domanda di Fazio su cosa abbia pensato nel momento in cui sentì l’allora leader del Pd pronunciare la fatidica frase “correremo da soli”, Prodi dice in un soffio: «Non ebbi bisogno di pensare niente. Si affacciò Mastella nel mio ufficio e mi disse: ragazzi miei, se volete far fuori me, sono io che faccio fuori voi». Pausa: «Mastella per la verità usò una frase un po’ più colorita», e giù una risata. Ma l’accusa è seria e non c’è bisogno di leggere chissà quanto tra le righe per interpretare il suo pensiero perché con questa battuta Prodi addossa a Veltroni la responsabilità di aver fatto cadere il suo governo. O quantomeno di aver innescato la mina Mastella, con conseguente crisi di governo. Che non era scritto da nessuna parte dovesse arrivare a fine corsa così prematuramente. «Dopo una Finanziaria durissima poteva andare avanti». Così non è stato. «Capita». Sorriso, a labbra strette.Sassolini che volano via dalla scarpa pesanti come macigni. Ma Prodi, pur dicendo che non ha intenzione di tornare ad assumere la carica di presidente del Pd né di accettare l’offerta che gli è stata fatta di candidarsi come capolista alle europee, torna davanti alle telecamere per far sapere che i mesi passati sono una parentesi che può considerarsi chiusa, che il partito che ha contribuito a fondare è un punto di riferimento importante e che, se richiesto, è pronto a dare il suo contributo per il successo dell’impresa, «esercitando liberamente lo spirito critico»: «Il Pd ha dentro di sé l’idea dell’Ulivo. Deve andare avanti. Bisogna scommetterci. Senza l’unità dei riformismi l’Italia non si salva. È l’ultima speranza che abbiamo». Ancora poche parole per mettere in chiaro concetti su cui tanto si è dibattuto nei mesi passati, a cominciare dal fatto che il Pd non è una creatura nata dal nulla e che invece è diretta discendente del progetto su cui tanto ha lavorato Prodi. «Io sono entrato in politica in età abbastanza avanzata con un’idea ben precisa: mettere insieme i diversi riformismi, divisi da secoli tra Guelfi e Ghibellini. E se vogliamo un paese che marci dobbiamo metterli insieme e cambiare le cose. Evidentemente il Pd ha il suo fondamento in questa idea e deve andare avanti».Fedele al ruolo che si è appena ritagliato, Prodi esercita liberamente «lo spirito critico» nei confronti del partito, dice che «parte di quello che si doveva fare è stato fatto, parte invece non è riuscito». E soprattutto dice che ora bisogna lavorare sulla «forma democratica interna», perché per questo come per tutti gli altri partiti «deve finire il gioco delle tessere». Lo sguardo è una panoramica: «Di partiti democratici non se ne vedono mica tanti. Io faccio critiche in casa mia perché è doveroso, ma se guardo da altre parti la forma partitica italiana è stata ridotta in uno stato miserabile». E ancora una volta, con poche parole, liquida un’altra discussione durata mesi, quella sulla funzione dei partiti, su quanto debbano essere leggeri o pesanti, sull’importanza o meno del tesseramento. Perché «senza partiti», dice Prodi, «non si fa politica»16 marzo 2009

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